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Client Centered Therapy
IL COUNSELING UMANISTICO
Una definizione di counseling
Counseling è un termine inglese, che deriva dal verbo to counsel, cioè consigliare. A causa di questa derivazione del termine, molti credono che nel counseling vengano date soluzioni, direzioni o consigli. In realtà, il counseling fa molto, ma ciò che sicuramente non fa, è proprio il proporre consigli o offrire soluzioni, perché come vedremo, il consigliare non è davvero utile alla crescita di una persona. Se scaviamo più a fondo, troviamo però che il significato etimologico della parola counseling, che deriva dal latino consulo, consiste invece in avere cura, venire in aiuto, ed è questo, ciò a cui il counseling si avvicina di più. Questo intervento è infatti considerato una “relazione d’aiuto”, cioè consiste in una relazione in cui una persona, dotata di maggiore conoscenza o maggiori strumenti, si propone di aiutare un altra, promuovendone la crescita, grazie alla valorizzazione delle sue risorse e ad una maggiore libertà di espressione.
La definizione più antica del counseling, risale al 1976 e fu scritta da quella che tuttora si considera la più prestigiosa associazione di categoria al mondo, la BACP, British Association for Counseling and Psycotherapy. Essa dichiara quanto segue:
“Il counseling è l’uso professionale e regolato da principi, di una relazione nell’ambito della quale, il cliente è aiutato nel processo finalizzato a facilitare una migliore conoscenza di se e l’accettazione dei propri problemi emotivi ed a portare avanti la propria crescita emozionale e lo sviluppo ottimale delle proprie risorse personale. Lo scopo finale è di fornire al cliente un’opportunità di vivere in modo soddisfacente ed in base alle proprie risorse. La relazione di counseling può variare a seconda dei bisogni, ma riguarda comunque i campi evolutivi ed è rivolta a risolvere problemi specifici, a prendere decisioni, a fronteggiare momenti di crisi, a sviluppare un insight personale ed a migliorare le relazioni con le altre persone. Il ruolo svolto dal counselor è quello di aiutare il cliente rispettando i suoi valori, le sue risorse personali e la sua capacità di autodeterminarsi”.
Questa definizione risalta quanto questa pratica sia un intervento volto alla promozione della salute e del benessere della persona. Ma in che cosa consiste esattamente?
Il counseling consiste in un tipo d’intervento basato sul colloquio fra un cliente ed un counselor. Quest’ultimo, non va considerato come un esperto di risoluzioni di problemi, ma come una persona esperta di comunicazione e di relazioni e che possiede dei buoni livelli di equilibrio, congruenza ed adattamento. Il cliente, invece, è una persona che generalmente viene a trovarsi in una situazione di conflitto o di difficoltà verso qualche problematica, che possiamo definire concreta, della propria vita, insomma una persona che sperimenta uno stato di incongruenza.
La relazione che verrà ad instaurarsi tra i due, fulcro del percorso di counseling, è lo strumento fondamentale per mezzo del quale il cliente, facilitato dal counselor nella comunicazione, nell’espressione e nell’ esplorazione di se stesso, potrà riuscire a trovare dentro di se’ le risorse per attuare i cambiamenti necessari a superare le proprie difficoltà. L’incontro fra queste due persone, può dunque essere visto come un seme che a mano a mano germoglia, portando nuove consapevolezze, nuove risorse e nuove possibilità per affrontare la vita, ecco perché è bene considerare il counseling come un processo, che evolvendo insegna.
Questo intervento, che come dicevo è orientato al benessere, non ha perciò lo scopo di curare degli individui, ma piuttosto di accompagnarli in un cammino di crescita personale.
Se fulcro di questo intervento è la relazione, sarà indispensabile che il counselor abbia le qualità e gli strumenti adatti, per porre delle solide basi a tale relazione. In seguito vedremo quali sono questi particolari attributi.
Il counseling ad approccio umanistico
Il counseling umanistico, detto anche terapia centrata sul cliente, affonda le sue radici in particolar modo negli studi dello psicologo Carl Rogers (1902-1987) e di alcuni suoi colleghi del tempo, fra i più rilevanti, Rollo May e Abraham Maslow. La sua opera del 1942, intitolata “Client-centered therapy”, gettò le basi non solo del counseling, ma di tutto il ramo della psicologia umanistica.
Rogers colse che esistono 6 condizioni necessarie e sufficienti per provocare una modificazione costruttiva della personalità all’interno di una relazione d’aiuto. Esse sono:
- Tra le due persone avviene un contatto psicologico.
- Una delle due persone, che verrà chiamata cliente, si trova in uno stato di incongruenza o disagio.
- L’altra persona, che si chiamerà il terapeuta, si trova in uno stato di congruenza, in grado cioè, di essere totalmente se stesso in se’ e nella relazione.
- Il terapeuta accoglie il cliente accettandolo positivamente e incondizionatamente.
- Il terapeuta prova una profonda comprensione empatica del sistema di riferimento interno del cliente, e si sforza di trasmettere ciò al cliente.
- Il cliente è in grado, almeno parzialmente, di percepire la comprensione empatica e l’accettazione positiva incondizionata da parte del terapeuta.
Vorrei spendere qualche parola per esplorarle più a fondo.
La prima condizione indica che affinché possa avvenire un cambiamento nel cliente, vi deve essere una relazione tra i due, un incontro psicologico. La seconda spiega che il cliente è una persona che si trova in difficoltà e che quindi si rivolge ad un counselor allo scopo di superare i propri disagi. La terza, la quarta e la quinta condizione, parlano delle caratteristiche fondamentali del counselor. Esse sono: la congruenza, cioè la capacità di porsi nella relazione senza alcuna riserva, l’accettazione positiva ed incondizionata del cliente, vale a dire un’ attitudine di accoglienza positiva senza condizioni, e la comprensione empatica, cioè l’abilità di percepire il mondo interno del cliente, senza tuttavia confondere i propri sentimenti con i suoi. (In seguito mi occuperò ancora di queste tre importantissime qualità, in un paragrafo dedicato interamente alle caratteristiche di un buon counselor). La sesta condizione, riguarda invece la necessità che vi sia, da parte del cliente, la capacità di percepire queste tre qualità fondamentali del terapeuta.
Rogers osservò dunque, che se in una relazione si attuano tutte queste sei condizioni, è possibile assistere ad un processo di cambiamento positivo nella persona. Se però, anche solo una di queste condizioni venisse a mancare, il processo non si attiverebbe. Inoltre, più intense sono le qualità positive del terapeuta e maggiore la capacità di coglierle del cliente e tanto più efficace e costruttivo sarà il cambiamento.
Rogers approfondì molto lo studio della relazione che viene ad instaurarsi tra terapeuta e cliente, arrivando a capire che l’efficacia e la riuscita del counseling dipendono in definitiva dalla qualità di questo incontro. Se il terapeuta riesce ad attuare le caratteristiche fondamentali di considerazione positiva, accettazione incondizionata, comprensione empatica e congruenza, ciò fa scattare un processo di crescita nel cliente, che lui chiamò continuum, consistente in un passaggio da uno stato di immobilità ad uno di fluidità nel mondo interno cliente. Questo processo comprende 7 fasi:
- Nel momento dell’inizio del percorso di crescita, il cliente presenta uno stadio di fissità, o blocco, verso la propria esperienza. Non ha voglia di esprimere ciò che sente, spesso non percepisce o non riconosce i sentimenti che vive e i propri significati. Questi sono rigidi e non vi è la voglia di cambiare o di mettersi in discussione. Quello che la persona vive, in questa fase iniziale, è percepito come il ripetersi di esperienze passate.
- Coi primi incontri, il cliente piano piano inizia a rendersi conto dei condizionamenti del suo passato, sulle esperienze attuali, sebbene ci sia comunque un’attitudine di estraneità verso ciò che accade. Le proprie convinzioni sono percepite come dati di fatto e non vi è differenziazione tra i propri significati e i propri sentimenti.
- Inizia poi a svilupparsi una maggiore fluidità nell’espressione di se’. Qui le proprie esperienze vengono descritte come oggetti e a volte vi sono riflessioni su di se’ come un oggetto riflesso. I sentimenti, avvertiti ancora come qualcosa da nascondere, iniziano ad essere accettati, se pur in modo molto limitato e generalmente vengono ancora estraniati da se stessi. I propri costrutti di significati, se pur ancora rigidi, vengono poi riconosciuti come propri. Il cliente inizia a scorgere le contraddizioni del proprio comportamento e l’inefficacia delle sue scelte.
- Progredendo, prende avvio un allentamento dei propri costrutti personali e i sentimenti iniziano a fluire più liberamente. Inizia ad esserci maggiore chiarezza verso i propri sentimenti, i costrutti, i significati personali. Questo inizio di consapevolezza è spesso accompagnato dalla paura di affrontare nel presente alcuni sentimenti spesso indesiderati. La percezione delle cose diventa in seguito meno rigida e l’esperienza si sposta sempre più verso il qui e ora.
- Nel passaggio successivo, incrementa la spontaneità di espressione e il diritto di vivere e comprendere la propria esperienza. Nonostante la paura, il cliente cerca di lasciarsi andare al sperimentare i propri sentimenti in libertà, ora che egli può sentirli vividamente dentro di se. L’esperienza diventa più propria, in particolare i sentimenti, tendono a non essere più allontanati, ma vengono osservati come fossero un referente utile per comprendere maggiormente se stessi. Inizia a nascere un senso di responsabilità verso i propri problemi. Il dialogo interno migliora e allo stesso tempo anche le comunicazioni interpersonali divengono più libere.
- In questa fase, i sentimenti possono oramai fluire senza ostacoli, vengono compresi e vissuti pienamente. L’esperienza attuale viene accettata in toto, con i sentimenti ad essa legati, senza che vi sia più timore o conflitto. La persona diviene così allineata con il suo se’, non c’è più separazione. Aumenta la congruenza, la comunicazione interpersonale è quasi priva di blocchi ed anche il corpo si rivitalizza e si distende.
- Verso la conclusione del processo, il cliente inizia a sperimentare una nuova fiducia in se stesso e verso i cambiamenti che avvengono in lui. Il proprio se’ diviene una coscienza soggettiva integrata nella propria esperienza e i propri costrutti vengono assunti liberamente e temporalmente, senza attaccamento ad essi. La comunicazione è chiara, spontanea e congruente.
Ecco i sette passaggi che una persona vive nel processo di crescita da persona incongruente, a persona congrua, che impara a vivere e ad accettare la propria evoluzione in modo fiducioso, libero, autonomo e responsabile.
Alla base di tutta la ricerca di Rogers, sta un elemento fondamentale che caratterizza la sua visione dell’uomo. Andando contro le idee tradizionali del tempo che consideravano l’uomo come un essere in balia dei propri istinti distruttivi e spesso non controllabili, egli cambiò totalmente prospettiva, basandosi su una visione dell’uomo come unità bio-psicospirituale, dotato di una natura positiva e degna di fiducia.
Egli capì che l’uomo possiede una cosiddetta “tendenza attualizzante” in se’, vale a dire un’energia che lo spinge a sviluppare quelle capacità che servono al suo stesso mantenimento, alla sua autoregolazione e soprattutto alla sua autorealizzazione. La tendenza attualizzante, presente in tutti gli esseri viventi, è la forza innata, la motivazione, che genera l’evoluzione ed è ciò che spinge ogni persona verso l’autorealizzazione, l’autonomia e una condizione di vita sana e positiva.
Rogers riconobbe però che molto spesso, tale autorealizzazione, nelle persone non riesce ad attuarsi e di conseguenza cercò di esplorare quali sono gli ostacoli che la tendenza attualizzante incontra negli uomini e come e perché s’innescano i comportamenti autodistruttivi.
A questi quesiti, egli rispose con la sua teoria della personalità: ogni bambino possiede l’energia evolutiva della tendenza attualizzante ed un sistema di controllo innato che valuta l’esperienza del proprio organismo. Questi due sistemi collaborano affinché la persona ascolti e soddisfi i propri bisogni e in particolare fanno sì che la persona percepisca la sua esperienza come fosse la realtà, dia valore alle cose e cerchi ciò che sente positivo e utile alla propria crescita e al proprio mantenimento, cercando invece di sfuggire ciò che non avverte come tale, tendendo comunque verso lo scopo finale di attualizzare le proprie potenzialità.
Sappiamo che nei primi anni di vita i bambini sviluppano un forte bisogno di accettazione e considerazione positiva. Tale bisogno, che spesso il bambino lascia soddisfare con risposte positive da parte degli altri piuttosto che dalla considerazione positiva di se stesso, fa sì che egli arrivi a dare più rilievo ai fattori esterni (accettazione dei genitori ad esempio) rispetto a quelli interni (percezione di se’).
Ecco allora che il bambino impara a selezionare i propri comportamenti, rinforzando quelli riscuotono maggior accettazione da parte dell’ambiente, e reprimendo gli altri, che l’ambiente valuta negativi. Piano piano, egli arriva addirittura a negare a se stesso il bisogno che stimola quei comportamenti che egli decide di bloccare. In questo processo di adattamento, le persone imparano a limitare parti di se’ e non potendosi esprimere liberamente ecco che vengono a crearsi nelle loro personalità, dei punti d’incongruenza. Maggiore è la negazione dei propri bisogni e più il naturale sviluppo dell’individuo sarà deviato, dando sempre più importanza ed interiorizzando i codici e le richieste esterne che andranno a provocare forti incongruenze col proprio essere.
Di fronte a questa situazione, Rogers capì che lo scopo della relazione d’aiuto è di restituire alla persona le condizioni adatte per riattivare il proprio naturale processo evolutivo. Le condizioni che il cliente potrà vivere all’interno della relazione instaurata nel counseling, gli permetteranno così di esplorare le varie parti di se’, di esprimerle e di accettarle, in modo che egli possa in seguito riprendere la propria crescita in modo autentico. Per questo motivo, possiamo dire che lo scopo principale del lavoro di counseling, è proprio quello di offrire al cliente un’esperienza correttiva, che mirerà, come scopo ultimo, a restituire alla persona il proprio potere personale.
In che cosa consiste: setting, fasi nel percorso, fasi nel colloquio, strumenti, obiettivi.
Il counseling consiste in una relazione d’aiuto che si basa sul colloquio. Ci sono degli elementi concreti che caratterizzano un percorso di counseling e vorrei brevemente descriverli qui di seguito.
Per iniziare, vorrei parlare del setting del colloquio. E’ indispensabile che l’incontro avvenga in un luogo dove il cliente possa sentirsi accolto, al sicuro, tranquillo. Generalmente si sceglie una stanza luminosa, di dimensioni non troppo piccole, ma neanche troppo grandi, con una temperatura piacevole, dei colori tenui e un arredamento equilibrato. Insomma l’atmosfera deve essere serena e il counselor deve assicurarsi di non essere interrotto durante il colloquio. Cliente e counselor siedono su due sedie, generalmente poste una di fronte all’altra, senza la classica scrivania in mezzo, perché si ritiene meglio non porre alcuna barriera, neanche fisica, tra i due. Se il colloquio fosse di gruppo, allora si andrebbe a formare un cerchio in modo che tutti possano vedersi. Oltre al pieno contatto visivo è importante che vi sia anche una buona vicinanza (nei colloqui individuali all’incirca due metri tra le due sedie), per favorire l’ascolto empatico.
Fa parte del setting anche la gestione del tempo del colloquio. Gli incontri generalmente hanno una durata che va dai quarantacinque ai sessanta minuti. E’ fondamentale il rispetto degli orari da parte del counselor, cioè egli deve esser in grado di gestire e far terminare l’incontro entro il tempo stabilito, nelle dovute maniere, senza affrettarsi o interrompere bruscamente il cliente. Quest’ultimo deve, da parte sua, rispettare orari e appuntamenti concordati. Nel counseling di gruppo gli incontri hanno una durata maggiore, che può andare dall’ora e mezza, ad addirittura interventi di interi weekend. In entrambi i casi, è indispensabile che il counselor tenga a portata di mano un orologio e con le giuste accortezze, sappia monitorare il tempo.
Riguardo al setting e alla gestione del tempo durante i colloqui, è fondamentale che il counselor chiarisca questi dettagli con il cliente fin dal primo incontro. Informare la persona su orari, durata degli incontri, numero degli incontri e le modalità del loro svolgimento, è una forma di correttezza e rispetto che permetterà anche a lui di prendersi le proprie responsabilità. Questa è una fase importante, chiamata: “definizione del contratto”. Oltre al servirsene per dare informazioni tecniche, il counselor può cogliere questo momento per chiarire a fondo anche la funzione e gli obiettivi dell’intervento, così che il cliente possa avere maggiore chiarezza ed eventualmente avere la possibilità di svelare possibili dubbi.
Questi tre elementi, il luogo, il tempo e il contratto, riguardano, per così dire, la cornice degli incontri di counseling, ma vi sono anche specifici elementi che caratterizzano ciascun singolo incontro e altri, invece, che delineano il percorso nel suo complesso. Vediamo i più importanti uno ad uno.
In ciascun singolo colloquio, vi sono tre fasi fondamentali: quella iniziale (o di apertura), quella centrale e quella finale (o di chiusura). Nella prima parte, il counselor apre il colloquio, generalmente grazie ad una domanda d’invito al cliente ad esporre quanto lui sente di voler condividere. Già da questi primi istanti è fondamentale trasmettere, oltre che l’interesse per quanto esposto, l’accoglienza positiva del cliente e la fiducia verso di esso, oltre che la qualità di collaborazione e parità che si vuole favorire nella relazione. Negli incontri successivi al primo, può anche essere utile in questa fase, chiedere al cliente se, nel tempo trascorso fra i due incontri, ci sono state delle riflessioni su tematiche esplorate nel colloquio precedente.
Durante la parte centrale di un colloquio, invece, il cliente, facilitato dal counselor, ha la possibilità di esplorare maggiormente i temi da lui stesso proposti e soprattutto di fare esperienza di se stesso nel “qui ed ora” della relazione. In particolare, egli potrà contattare e condividere le sue emozioni, i suoi pensieri, le sue paure. Mantenendo un atteggiamento non direttivo, ma servendosi dell’ascolto attivo, dell’empatia e di strumenti di facilitazione della comunicazione e dell’esplorazione, in questa fase, il counselor mirerà a sostenere la persona nella comprensione e consapevolezza delle sue difficoltà, così che poi lui possa trovare nuove soluzioni per le sue problematiche.
La parte finale di ciascun incontro, invece, è quella in cui il counselor occupa un po’ più spazio, in quanto deve riuscire, con le giuste modalità, prima di tutto ad avviare il colloquio verso il termine e poi a concluderlo. In questa fase, non si andranno a stimolare nuovi argomenti o approfondimenti, ma si cercherà invece di riassumere quanto detto, cercando di elencare gli aspetti più importanti che sono emersi. Anche se ogni conclusione è diversa dalle altre, ciò che conta, è l’abilità del counselor di terminare l’incontro in empatia e rimanendo in contatto col cliente, possibilmente offrendo una chiara restituzione e invitandolo alla riflessione, nel tempo che percorrerà fino all’incontro successivo.
Per quanto riguarda l’intero percorso di counseling, che generalmente può durare dai sei ai dodici incontri con cadenza settimanale, vi sono dei passaggi che possono variare molto da approccio ad approccio, in quanto alcuni seguono una linea più direttiva e di conseguenza possono avere dei veri e propri “steps” da seguire in modo molto rigido. L’approccio centrato sulla persona, considera il cliente come il vero protagonista del proprio percorso e della propria crescita. Compito del counselor, secondo questo ramo del counseling, sarà dunque quello di favorire in lui la consapevolezza e la fiducia nelle proprie possibilità, lasciando poi a lui stesso la gestione della propria evoluzione, nel pieno della sua libertà e della sua responsabilità. Basandoci sul modello Rogersiano, il percorso d’aiuto nel suo complesso, prevede innanzitutto un momento di “contatto” iniziale, che può avvenire sia di persona che telefonicamente. Questo primo incontro è molto importante perché le prime sensazioni sono di norma quelle dalle quali ci facciamo guidare maggiormente e quelle che rimangono più impresse dentro di noi. Sarà dunque da questi primi istanti che la persona deciderà se iniziare il percorso o no, o se rivolgersi a qualcun altro. In seguito, quando il vero e proprio percorso sarà iniziato, i primi due o tre incontri saranno dedicati all’analisi della richiesta del cliente e alla definizione del problema. In poche parole, questi primi incontri servono ad aiutare il cliente a fare chiarezza rispetto a ciò che egli sente di aver bisogno e alla sua meta, tenendo sempre presente che lui stesso sarà il protagonista di queste esplorazioni. E’ utile ricordare che questa fase è importante anche al counselor, per comprendere la natura delle problematiche del cliente e per valutare se un percorso di counseling sia lo strumento adeguato per la richiesta da lui avanzata. Se ciò non fosse, è responsabilità del counselor inviare la persona ad altri specialisti, che potranno accogliere la richiesta del caso. Con il terzo o quarto incontro, si dovrebbe aver raggiunto una maggiore comprensione e consapevolezza, dunque counselor e cliente possono stabilire, insieme, il contratto di percorso, vale a dire il numero d’incontri, le modalità e gli obbiettivi dell’intervento. Inizia qui la fase centrale del percorso, quella del vero e proprio trattamento. Qui si da spazio all’esplorazione da parte del cliente, dei propri problemi, delle risorse, delle motivazioni, dei limiti, delle aspettative e di tutte le emozioni legate a ciò. Progredendo con queste fasi di comprensione e acquisizione di nuove consapevolezze, il focus inizia piano piano a spostarsi verso la definizione di obiettivi e cambiamenti. Nell’ultima fase, infine, il cliente generalmente condivide i propri stati d’animo nei confronti dei suoi primi passi del cambiamento. Vi possono anche essere dei momenti di verifica dei goal stabiliti, sebbene secondo Rogers l’importante sia accompagnare il cliente fino al momento della preparazione all’azione e non necessariamente oltre. In definitiva, possiamo ricordare che lo scopo ultimo del percorso di counseling è di restituire alla persona il proprio potere personale, dunque, nel momento conclusivo, il cliente dovrebbe dimostrare di aver acquisito gli strumenti e le risorse necessari per affrontare in autonomia i propri problemi, forte di una nuova fiducia in se stesso e di una maggiore consapevolezza di se’.
Il counselor
Come anticipato, l’efficacia dell’intervento di counseling, sta nella qualità della relazione di aiuto. Vi sono delle caratteristiche fondamentali, infatti, che la relazione che andrà a instaurarsi tra cliente e counselor, dovrà presentare, affinché questa possa essere utile al cliente e riesca a promuovere il suo cambiamento. Rogers fu molto chiaro rispetto a tale convinzione, insistendo sul fatto che la qualità dell’incontro sia, fra tutti, l’elemento decisivo all’esito di questo intervento.
Per raggiungere tale qualità della relazione, il counselor, secondo Rogers, deve presentare, in particolare, alcune condizioni fondamentali: autenticità e congruenza, accettazione, comprensione empatica. Andiamo ad esplorarle una ad una.
Per autenticità, s’intende la capacità del counselor di presentarsi al cliente, e a se stesso, in modo autentico, o se vogliamo, spontaneo. Ciò significa che in ogni momento, egli è in grado di essere se stesso e di vivere pienamente tutti i propri sentimenti, ed eventualmente anche di comunicarli, senza bisogno di nascondersi, di fingere o di utilizzare qualche maschera, compresa quella del professionista. Questa qualità è legata ad un’altra caratteristica importantissima: la congruenza. Vale a dire che oltre ad essere autentico, il counselor, dovrebbe riuscire anche ad essere congruente nel suo modo di porsi nella relazione, in modo tale da riuscire ad essere un tutt’uno di pensieri, azioni ed emozioni, libero, spontaneo, ed autentico. Questa genuinità è alla base di tutti i rapporti di fiducia e nel counseling essa diviene la condicio sine qua non per l’instaurarsi di una relazione d’aiuto efficace.
Per accettazione, intendiamo la considerazione positiva incondizionata da parte del counselor del cliente. Che cosa significa ciò? Innanzitutto è importante distinguere che accettare una persona in modo incondizionato, non significa dover approvare ogni suo comportamento o scelta. Quello che s’intende è dimostrare di accogliere positivamente il cliente, come persona, in un atteggiamento di calore, interesse e desiderio di comprensione della sua natura, senza che vi siano delle condizioni, vale a dire accettandolo nel suo profondo, indipendentemente da ciò che egli pensa, dice, o fa. Sebbene talvolta possa accadere che alcuni comportamenti non siano approvati dal counselor, grazie alla sua autenticità e congruenza, quest’ultimo dovrebbe essere in grado di esprimere in modo assertivo il proprio sentimento, riuscendo in ogni caso a trasmettere al cliente un messaggio di profonda accettazione incondizionata, come individuo unico, prezioso e degno di rispetto nel suo complesso, cioè in tutti i suoi aspetti. E’ giusto ricordare che tutti i giudizi morali, compresi anche quelli positivi, sono da evitare, come lo sono atteggiamenti volti a convincere, possedere, dominare o conquistare la persona. Il counselor deve essere spinto solo dall’interesse positivo e incondizionato verso il cliente, per far sì che egli possa tendere alla sua libera ed autonoma autorealizzazione.
La terza caratteristica fondamentale del counselor, è la comprensione empatica.
L’empatia è la capacità, sia umana che animale, di sentire dentro di se’ lo stato d’animo altrui. Comprendere empaticamente un altro essere vuol dire riuscire a provare ciò che lui percepisce, i suoi punti di vista e i suoi sentimenti, come se si fosse davvero lui. Rogers evidenzia l’importanza del “come se” però. S’intende dire, che è sì importante riuscire a sentire ciò che l’altro prova, ma è altresì importante non confondere i propri sentimenti con quelli del cliente. Ciò comporta cercare di comprendere l’altro, come se guardassimo il mondo dai suoi occhi, ma allo stesso tempo rimanendo consapevoli dei propri confini.
Tutte queste caratteristiche del counselor, che ho appena descritto, sono le condizioni grazie alle quali il cliente può sperimentare la possibilità di esplorarsi liberamente, di condividere pienamente la sua esperienza, riflettere su di essa in condizioni facilitanti e grazie a ciò, trovare nuove prospettive e possibilità per la propria crescita.
Oltre a queste indispensabili qualità, vi sono altre micro-abilità che il counselor dovrebbe essere in grado di attuare. Se le prime consistono in quello che possiamo descrivere come un “modo di essere” del counselor all’interno della relazione, le altre sono competenze che esso deve via via acquisire e perfezionare, grazie ad un’appropriata formazione e all’esperienza. Queste sono, ad esempio, la capacità di ascoltare ciò che il cliente comunica, sia verbalmente che in modo non verbale, la capacità di comunicare in modo efficace la propria empatia, accettazione ed autenticità, l’abilità di gestire sia un colloquio individuale, che tutto il percorso di counseling, in modo corretto, in ciascuna sua fase (molto importante ad esempio è il momento della chiusura degli incontri), la capacità di rimanere attivo e presente in ogni momento alle dinamiche del colloquio, cogliendo quello che vive il cliente, ma anche restando vigile alle proprie dinamiche, autoosservandosi e automonitorandosi
Ciò è molto importante soprattutto per i counselor all’inizio della propria carriera. Può capitare, infatti, soprattutto ad un counselor inesperto, di cadere in modalità di intervento alle quali siamo molto abituati nelle comunicazioni che abbiamo nella vita di tutti i giorni, ma che all’interno del setting di counseling, possono diventare bloccanti o non facilitanti per il cliente. Essendo tra gli errori più comuni, vediamo quali sono questi interventi, cercando di capire perché non portino alcun beneficio.
- Valutazioni e giudizi morali
Può succedere che il counselor assuma un atteggiamento paternalistico, dando consigli, approvando o disapprovando alcune scelte o cercando di indurre dei comportamenti. Ciò, non solo frena la comunicazione e l’esplorazione da parte del cliente, ma va ad intaccare anche il suo senso di autonomia e di accettazione incondizionata. Espressioni del tipo “si deve”, “è giusto/sbagliato”, “hai fatto bene/male”, inducono un senso di inferiorità e disuguaglianza che non stimolano la crescita personale libera ed autonoma.
- Sostegno sotto forma di consolazione
Un'altra risposta che generalmente viene da chi si lascia prendere dall’atteggiamento paternalistico o addirittura genitoriale. Questo atteggiamento sminuisce il problema del cliente, lo sdrammatizza oppure ne normalizza il contenuto, trasmettendo un sentimento di pietà ed un senso di svalutazione, entrambi controproducenti per lo sviluppo dell’individuo.
- Interpretazioni e spiegazioni
Anche queste due modalità frenano l’autonomia e la crescita della persona. Spesso derivano dal fatto che quanto detto dal cliente, viene letto dal counselor secondo il proprio punto di vista o con il proprio bagaglio di esperienze, deviando e storcendo il messaggio comunicato. Il counselor deve essere molto abile nel riuscire a mettere da parte ciò che lui conosce, e a far posto a quello che il cliente comunica, rimanendo in un ascolto attento ed interessato del suo mondo, senza alcun pregiudizio e senza la presunzione di sapere di più di quanto il cliente stesso possa sapere. Il ruolo del counselor è, infatti, quello di facilitare e sostenere la persona nel suo percorso, con lo scopo che essa raggiunga maggiore consapevolezza e da qui essa possa prendere le sue decisioni in piena autonomia, non quello di manipolare la persona in un percorso che non gli appartiene.
- Risposte di tipo inquisitivo
Queste risposte sono da evitare semplicemente perché mirano a raccogliere informazioni, che probabilmente possano sembrare utili al counselor, ma in realtà non lo sono per il cliente. Ciò, infatti, può ostacolare la sua esplorazione perché diventa fuorviante rispetto a ciò che egli percepisce importante e può indurre anche atteggiamenti di difesa.
- Soluzioni e consigli
Offrire ai clienti soluzioni pronte o consigli è un atteggiamento che toglie loro la propria libertà e responsabilità, qualità che il counseling mira a favorire. Sebbene alcune persone, a volte, chiedano insistentemente delle soluzioni, sappiamo che quando queste arrivano dall’esterno, piuttosto che dalla riflessione personale, si rivelano del tutto inutili, oltre che trasmettere il messaggio implicito “tu non sei in grado!”. Questo errore è tra uno dei più comuni, in quanto nelle relazioni quotidiane siamo spesso abituati a dare e a chiedere consigli ad amici, colleghi e famigliari. Nel counseling, la fiducia totale che il counselor sente per il cliente deve permettergli di bloccare questo tipo d’interventi, allo scopo di far sì che egli stesso trovi in se’ le proprie risoluzioni più utili.
Questi sono gli atteggiamenti e le risposte bloccanti più comuni, dai quali il counselor deve guardarsi, rimanendo sempre vigile a se stesso, oltre che al cliente.
Altri strumenti che ogni counselor dovrebbe tendere ad acquisire e a perfezionare, oltre a quelli visti in precedenza, sono: la capacità di ascoltare, l’abilità nel fare rimandi, nel riformulare e nel porre le domande.
Per quanto riguarda l’ascolto, ve ne sono due diverse modalità: quello passivo e quello attivo. Il primo, comprende il restare in un silenzio attento e rispettoso, offrendo contatto oculare ed assumendo una posizione di apertura ed accoglienza. Fanno parte dell’ascolto passivo le comunicazioni non verbali che incitano alla comunicazione. Questa modalità è presente nel counselor particolarmente nelle prime fasi dei colloqui. In seguito, ciò che si attua è invece l’ascolto definito attivo, quello cioè che prevede maggiori verbalizzazioni da parte del counselor, allo scopo di aiutare l’esplorazione nel cliente. Gli interventi del counselor possono essere vari, ad esempio le cosiddette “frasi apriporta” che invitano il cliente all’approfondimento, oppure le domande, come quelle di facilitazione, che sono utili per incoraggiare la persona ad esprimersi liberamente, o come inviti a prendere in considerazione prospettive nuove (le cosiddette domande proiettive).
Riguardo alle domande, è importante che le esse siano poste in modo chiaro e semplice e possibilmente con un linguaggio vicino a quello del cliente, senza abusarne troppo spesso, ricordando che quelle aperte sono le più appropriate perché inducono ad una maggiore esplorazione.
Oltre alle domande, un strumento molto importante del quale il counselor si serve, sono le riformulazioni. Ve ne sono tre tipi:
- La riformulazione del contenuto: consiste nel ripetere, nel parafrasare o nel riassumere, il contenuto esplicito di quanto esternato dal cliente. Questo intervento permette al cliente di conoscere e comprendere meglio se stesso, i suoi significati e le sue conoscenze. Fanno parte di questo tipo di riformulazione l’eco, o reiterazione semplice, la reiterazione parziale e la parafrasi.
- La riformulazione del sentimento: consiste nel riportare al cliente, verbalizzandoli, i sentimenti e gli stati d’animo presenti nella sua comunicazione, sotto forma di messaggi verbali o non verbali. Nell mettere in luce questi aspetti del racconto del cliente, è necessaria molta delicatezza, in quanto si vanno a toccare gli aspetti più intimi della persona.
- La riformulazione del significato: fra tutte, è la più complessa e quella che richiede più attenzione, in quanto si può facilmente cadere nell’interpretazione personale del vissuto del cliente. Questo intervento serve a scorgere dei collegamenti nuovi nella sua esperienza tra sentimenti, espliciti o non, e gli aspetti più intellettuali dell’esperienza. Possiamo definirla quasi una deduzione da parte del cliente, che mira a chiarire degli aspetti che il cliente non riesce vede o non riesce a cogliere e che legano i suoi sentimenti, alle sue esperienze.
Le tecniche che ho appena descritto sono utili al counselor per aumentare la comprensione empatica verso il soggetto, facendolo sentire accolto e stimolando così, il suo processo di autoguarigione.
Questi strumenti pratici, che sono importantissimi nel colloquio di counseling, non sono esaustivi. E’ importante ribadire infatti, che quello che fa la differenza, nelle relazioni di aiuto di counseling, è la presenza del counselor, il modo, cioè, in cui egli si pone come persona.
Se le abilità tecniche si possono acquisire con una buona formazione e con esperienze sul campo, tale presenza richiede un lavoro profondo su di se’. Ecco perché ogni counselor dovrebbe, per primo, intraprendere un percorso di crescita ed esplorazione personale, in modo da sviluppare, sempre più, quelle qualità personali, che in una relazione, riescono a fare la differenza.
La storia e lo sviluppo del counseling
Andiamo a scoprire come si è sviluppata questa pratica.
Per risalire alle origini del counseling dobbiamo fare un salto indietro e considerare sia lo sviluppo della psicoterapia, che quello della società, negli anni della Rivoluzione Industriale.
La psicoterapia come la intendiamo oggi, nasce verso la fine del 1700, momento in cui la classe medica iniziò a sostituire la chiesa nel trattamento di chi soffriva di disagi psicologici. Fino ad allora, e ancora per molto tempo in seguito, soprattutto fuori dai grossi centri urbani, il ruolo del counselor veniva ricoperto da persone all’interno delle piccole comunità, ad esempio da parte dei preti, o da componenti delle famiglie stesse.
Prima dell’avvento dell’era industriale, infatti, la società consisteva di piccole comunità agricole, e all’interno dei nuclei famigliari, allora strutturati nelle cosiddette famiglie allargate, vi era il tempo per ascoltarsi e condividere le proprie difficoltà, così i membri trovavano modo di confrontarsi e confortarsi tra di loro. Dall’altro lato, esisteva anche una rigida scala dei valori allora e vi era un forte controllo sociale, dunque le persone, se da un lato erano più salvaguardate a livello psicologico, dall’altro erano tuttavia fortemente represse.
Furono la Rivoluzione Industriale e l’avvento del capitalismo, a cavallo dell’ottocento, che cominciarono a mutare in modo sostanziale la civiltà di allora, ponendo le basi della società contemporanea e predisponendo le condizioni necessarie all’affiorare e al diffondersi delle professioni volte alla cura psicologica delle persone. Queste condizioni furono prima di tutto il rompersi delle piccole comunità agricole dovuto agli spostamenti nelle grandi città, che a sua volta causò lo spezzarsi delle norme morali del tempo e la crescita del potere della conoscenza scientifica, a scapito dell’influenza religiosa.
Le società urbane e i valori del capitalismo richiedevano ai nuovi cittadini caratteristiche diverse rispetto al passato: indipendenza, razionalità, controllo, intraprendenza, qualità del tutto nuove alla maggior parte delle persone. In questo quadro, nacque la necessità di trovare delle figure che potessero fare da guida e da sostegno nell’affrontare le nuove sfide della società moderna, compito che presto spetterà al counselor.
Verso la fine del settecento, nei centri più urbanizzati, tra le prime, le principali città anglosassoni, lo Stato andava occupandosi sempre di più della gestione delle persone con difficoltà psicologiche o malattie mentali, ad esempio con la formazione degli Asylums (manicomi). Di lì, si passò in seguito, da un servizio di solo contenimento dei malati mentali in tali strutture che avevano in gran parte una funzione di puro isolamento, alla nascita di servizi di terapia per i malati che appartenevano alle classi sociali più agiate. Questo passo fu davvero importante poiché segnò il passaggio del disagio psicologico, da elemento della società che doveva essere represso e nascosto, ad un elemento che invece poteva essere reso sfruttabile e dal quale si sarebbe potuto trarre profitto.
L’ottocento vide un fortissimo sviluppo della medicina e della scienza, facendo incrementare l’interesse degli studiosi per la ricerca sulle malattie psicologiche. Fu così che in ambito medico, nacque la branchia della
Psichiatria, che in seguito evolvette nella Psicoterapia, come pratica che mirava alla cura del corpo attraverso la mente. La prima clinica di psicoterapia fu aperta ad Amsterdam nel 1887.
Durante il novecento, grazie al contributo di Freud e molti altri studiosi del tempo, tutta la scienza della psiche continuò a svilupparsi, diffondendosi in Europa ed emigrando, con coloro che fuggivano alla guerra, verso le terre oltreoceano.
Negli USA la psicoterapia trovò terreno fertile per svilupparsi anche a livello popolare, dato che la società americana del tempo, in cui il capitalismo era diventato più dominante rispetto a quanto lo fosse in Europa, mostrava i segni di maggiore incertezza sociale, debolezza psicologica e necessità più immediata di sostegno.
E’ proprio qui che troviamo i primi esempi di servizi di counseling, ad esempio il Centro di Counseling per attività di orientamento in ambito scolastico ed accademico, fondato nel 1913 da Frank Parson, la Psychological Corporation, fondata nel 1921 da J.Mckeen Cattel, per consulenze psicologiche in ambito industriale e per finire i servizi di consulenza e assistenza psicologica che furono messi a disposizione dei reduci della Prima Guerra Mondiale che rimpatriavano dopo i combattimenti.
La nascita ufficiale del Counseling viene tuttavia fatta risalire alla pubblicazione di due opere molto importanti: L’Arte del Counseling di Rollo May, pubblicata nel 1939 e Psicoterapia di consultazione di Carl Rogers, pubblicata nel 1942. Questi volumi non segnarono solo la nascita del Counseling, ma marcano anche il sorgere di quella che viene definita la terza via della psicologia, quella umanistica.
Fino ad, allora infatti, esistevano solo due filoni principali di teorie psicologiche: uno era quello che si rifaceva alla psicoanalisi di Sigmund Freud e l’altro era quello che si basava sulle teorie cognitivo-comportamentali di Albert Hallis e Aaron Back. Nella tradizionale psicoterapia del tempo, e confermata in entrambi questi approcci psicologici, la posizione del paziente all’interno della terapia era sempre stata di subordinazione rispetto a quella del terapeuta, che fra i due ricopriva la veste di esperto. Il fulcro della terapia, inoltre, era occupato dal sintomo del paziente. L’approccio psicanalitico credeva che nell’uomo esistessero impulsi irrazionali indomabili e che solo il terapeuta, grazie ad un lavoro di rivelazione dell’inconscio del paziente, potesse aiutarlo nel superamento delle proprie difficoltà psicologiche. Secondo l’approccio cognitivista, invece, erano i condizionamenti ambientali la causa della sofferenza umana, dunque il terapeuta aveva il compito di aiutare il paziente nell’apprendimento di comportamenti funzionali più efficaci per adattarsi meglio al proprio ambiente.
L’avvento della Psicologia Umanistica, che iniziò a svilupparsi intorno agli anni ’50 negli Stati Uniti, rivoluzionò totalmente queste tradizionali prospettive e come abbiamo anticipato prima, fondamentali a tale mutamento furono le innovative idee del tempo, in particolare, quelle di Carl Rogers, Rollo May, Abraham Maslow. Le maggiori novità che questi autori apportarono alla psicologia furono:
- La centralità dell’individuo, che per la prima volta diventa il vero protagonista della propria crescita personale
- Una visione positiva della natura dell’uomo, senza presupposti per la malattia, ma come individuo che può vivere dei disagi nelle sue fasi di sviluppo, e che tuttavia ha le potenzialità per crescere e superare tali difficoltà. In questo senso la terapia diviene per a prima volta, non solo cura della malattia, ma promozione del benessere. A tale proposito, la persona che prima richiedeva un servizio di terapia, non sarà più chiamata paziente, ma prenderà il nome di cliente.
- La fiducia incondizionata nelle possibilità di crescita di ciascun individuo, in quanto ognuno racchiude in se’ la tendenza all’autorealizzazione e le risorse per metterla in atto.
Il 1962, anno in cui il termine di psicologia umanistica fu coniato, fu l’anno che simboleggiò la nascita di questo terzo ramo della psicologia, che, di lì in seguito si sarebbe occupata dello studio delle dinamiche emozionali e comportamentali che tendono ad una esistenza piena e vitale.
Il termine counseling, fu invece utilizzato per la prima volta per indicare un’attività rivolta al sostegno psicologico, già nel 1908, da Frank Pearsons. Fu tuttavia la pubblicazione del testo di Carl Rogers, “La Terapia Centrata sul Cliente” del 1951, il punto cruciale che segnò l’inizio dello sviluppo del counseling, inteso come relazione di aiuto basata sulla responsabilità e la libertà di scelta del cliente da una parte, e la fiducia incondizionata del counselor dall’altra.
Da quel momento in poi, con il progresso della psicoterapia ad orientamento umanistico, anche il Counseling inizia a prendere forza, iniziando a diffondersi come professione a se’. Nel 1952, negli USA, fu fondata l’American Association for Counseling (prima chiamata American Personell and Guidance Association), pochi anni dopo in Gran Bretagna nacque quella che diventerà nel 1971 la British Association for Counseling.
Questi primi esempi di servizi di counseling mostravano un legame molto stretto sia con il sistema educativo-scolastico, volto quindi alla carriera, che con il settore del volontariato (spesso nelle situazioni più critiche della società) ed in alcuni casi anche come sostegno per i dipendenti delle grandi industrie.
Questo evidenzia come la tradizione storica del counseling, a differenza della psicoterapia, giaccia nella prospettiva dell’azione sociale, piuttosto che sulla cura della patologia individuale. Ed è con questo orientamento che esso ha continuato a diffondersi, soprattutto nei paesi anglosassoni fino ai nostri giorni e tuttora continua la sua crescita. Dunque, sebbene, come abbiamo visto, il corso dello sviluppo del counseling, sia molto vicino ed intrecciato a quello della psicoterapia, è tuttavia importante rimarcare che counseling e psicoterapia nacquero come due pratiche ben distinte e con scopi diversi e tali rimangono tuttora.
Per quanto riguarda la storia del counseling in Italia, bisogna notare che il suo sviluppo fu più lento e difficoltoso, rispetto ai paesi sopra citati. Le prime vere associazioni di counseling nacquero nel nostro paese solo intorno agli anni ottanta (in principio come servizi per gli studenti all’interno delle università). Negli anni novanta, ci fu poi il sorgere dei primi corsi di formazione in questa nuova professione e i servizi di counseling si diffusero lentamente anche in ambito sociale e sanitario oltre che scolastico, ma fu solo nel 2000 che questa attività venne riconosciuta dal CNEL e fu infine inserita fra le professioni autoregolamentate con la legge del 14 gennaio 2013.
Attualmente, in Italia, esercitano 2,500 professionisti e sta aumentando rapidamente il numero di associazioni professionali di categoria, tra le quali ricordiamo alcune delle più importanti, l’AssoCounseling, che esercita dal 2009, l’AICO , la CNCP e la SICO.
552,000 si stima essere il numero di counselors negli USA, mentre in Inghilterra, solo la BACP, la maggiore associazione del settore del territorio inglese, contava 26,000 membri già nel 2013.
Insomma il counseling, è una pratica che si sta diffondendo a vista d’occhio nella società contemporanea. Qual è la ragione di un tale successo?
Il counseling nella società contemporanea
Abbiamo fino a qui messo in evidenza gli eventi che hanno portato alla nascita di questa pratica, ma vorrei ora fare una riflessione sul perché vi sia, e credo vi continuerà ad essere in maniera sempre più evidente, un estremo bisogno di questo tipi di servizi, soprattutto per quanto concerne il mondo occidentale. Tale situazione è causata soprattutto da ragioni sociali.
La globalizzazione è sicuramente una delle maggiori cause: l’intensificazione degli scambi su scala mondiale, ha portato all’abbattimento di molte barriere. Tutto è più vicino, tutto diventa più accessibile e alla portata di tutti. Culture una volta distanti, si trovano ora a convivere e a relazionarsi giornalmente.
Se da una parte questa esperienza ci può rendere più umanamente ricchi, allo stesso tempo però, l’essere esposti ad una varietà molto maggiore di etnie, di stimoli e novità, può disorientare, fino a portare ad un vero e proprio senso di frammentazione dell’identità. Il senso di appartenenza può dunque venire a mancare, poiché l’identità culturale è generalmente fondata sulle proprie radici e sulla propria storia, elementi che nel mondo moderno hanno subito forti cambiamenti. Non siamo più legati come un tempo alle nostre origini: le tradizioni si perdono, i valori si rinnovano e ognuno può decidere della propria storia. Questa grande libertà è spesso pagata a caro prezzo, da chi si trova disorientato, in una società che può apparire sempre più estranea a se stessi.
E’ ancora grazie alla globalizzazione che la società odierna offre molte più possibilità rispetto ad un tempo. L’aumento delle opportunità è sicuramente un punto positivo rispetto al passato, ma tra tutte le cose che ci si presentano, quali sono quelle utili e quali non lo sono? Come scegliere se non si possiede una salda conoscenza dei propri bisogni? Tutto diviene possibile, ma si fa sempre più fatica a distinguere che cosa sia davvero necessario. La nostra società è trainata dalla contingenza e dalla complessità, e se da un lato vi è un numero sempre maggiore di possibilità, dall’altro mancano gli strumenti per attuare tali possibilità, dunque ciò che ne risulta può essere solo un senso, sempre maggiore, di forte frustrazione.
Accanto a queste caratteristiche, evidenti nella nostra società globalizzata, va considerato anche un altro elemento, tra i più preponderanti a livello di effetti psicologici che esso comporta: il tempo.
Il progresso, negli ultimi anni, ha causato un forte acceleramento della vita: più comodità significa più velocità, più opportunità significa più impegni, ci sono sempre più scambi, comunicazioni sempre più immediate, insomma in pochi anni tutto è diventato frenetico. Ma cosa ne resta dei tempi personali? I tempi psicologici di un individuo hanno un ritmo molto più lento rispetto a quello delle azioni. L’uomo ha la necessità di ascoltare, di riflettere, di sentire, di valutare, non solo quello di agire, ma la concezione utilitaristica del tempo che si è venuta ad instaurare nella nostra società, non sembra tenerne conto. Ecco allora che il divario tra tempi esterni e tempi interni della persona si amplifica sempre di più, provocando disagi come stress e ansia.
Legato al fattore tempo, bisogna considerare anche come siano cambiate le relazioni. Se la vita va di corsa, di conseguenza, anche le relazioni devono andare di corsa: non si ha più tempo per stare ad ascoltarsi, la comunicazione diventa più superficiale e frammentaria, a causa di ciò, prevalgono le relazioni volte agli interessi, che non soddisfano più il bisogno fondamentale dell’uomo di scambi profondi ed appaganti. Questo comporta un senso d’isolamento e alienazione ancora maggiore.
A peggiorare tale situazione entrano in gioco anche il progredire della virtualizzazione della realtà e la diffusione dei social. In un mondo in cui i contatti sono sempre più agevolati, riscontriamo con rammarico che la qualità delle relazioni umane sta invece peggiorando visibilmente.
Dunque, che cosa ne risulta, da questo quadro generale della nostra società?
Il risultato è che le persone si trovano a vivere forti pressioni psicofisiche dovute agli sforzi che attuano per mantenere o tendere verso l’elevato stile di vita che la società incoraggia e in questa “lotta per la sopravvivenza”, resa ancora più stenuante da tempi di azione molto stretti, gli individui si trovano soli ed alienati nel loro senso di frustrazione, delusione, inadeguatezza.
Ovviamente ciò non è vero per tutti, ma possiamo dire che lo è per la maggior parte delle persone che vivono nella società moderna del sistema capitalistico e del consumismo. Ecco allora la ragione per cui, negli ultimi decenni, il counseling ha preso piede in modo così calzante nell’occidente. Personalmente, sento che vi è un forte bisogno di rallentare, di sentirsi ascoltati, di ritrovare se stessi, di rivalutare la realtà, di comunicare e di ri-imparare a relazionarsi con gli altri. In questo senso io credo che il counseling abbia, e possa avere in futuro, un fortissimo impatto, non solo sulla vita di un individuo, ma sull’evoluzione dell’intera società.
Ambiti di applicazione del counseling
Come ho spiegato in precedenza, il counseling è una terapia d’aiuto che si rivolge a persone sane, che si trovano ad incontrare delle difficoltà di varia natura, ma molto concrete nella loro vita e che mira ad aiutare il cliente facendo sì che egli possa sviluppare in se’ le risorse necessarie per superare tali difficoltà e dunque, migliorare la propria vita in modo autonomo. La grande malleabilità e apertura di questo tipo d’intervento, fa sì che esso trovi applicazione in un raggio ampissimo di ambiti. Quelli principali sono:
- L’ambito sanitario
- L’ambito sociale
- L’ambito scolastico
- L’ambito aziendale
L’ambito sanitario utilizza interventi di counseling con varie modalità e a scopi diversi: quello della prevenzione, in cui i colloqui servono in modo particolare ad informare e ad educare i clienti, oppure quello del sostegno, sia della persona stessa, che dei famigliari, durante e dopo l’esperienza della patologia. Alcuni esempi di questo tipo d’interventi, sono il counseling nell’infezione da HIV, quello oncologico, genetico o legato a situazioni traumatiche come le morti improvvise di neonati. In tutti questi casi i colloqui di counseling sono utili ai malati e ai familiari per trovare un sostegno psicosociale che li aiuti ad attraversare le fasi della malattia e per trovare in se stessi le risorse per superare al meglio possibili difficoltà. Gli incontri in ambito sanitario possono essere individuali, oppure di gruppo.
Nell’ambito sociale vi sono davvero una miriade di diversi utilizzi del counseling, a scopo informativo, preventivo e di sostegno. Vengono adottati a livello personale, in coppia o nel gruppo familiare, e mirano sempre ad aiutare la persona, o il gruppo di persone, nel superamento di specifiche situazioni problematiche, facilitando dunque un processo di evoluzione e crescita. Esempi di questi tipi d’interventi, possono essere il counseling per la terza età o quello post-parto, a livello personale, mentre quello per la coppia e il counseling a mediazione familiare per quando riguarda quello non individuale.
Sempre di più, si stanno anche diffondendo il counseling scolastico e quello aziendale. Nel primo caso il counseling si pone come una possibilità di sostenere e migliorare i processi d’insegnamento e quelli di apprendimento nelle istituzioni scolastiche, oltre che dare un’assistenza psicologica agli studenti durante gli anni di formazione, per quanto riguardo ad esempio possibili momenti di difficoltà o nelle scelte importanti.
Un esempio di tale servizio in Italia è quello offerto dai CIC (Centri di informazione e Consulenza), che mette a disposizione degli studenti sportelli di ascolto ai quali questi possono rivolgersi per problematiche relative appunto all’ambito scolastico.
Il counseling aziendale è invece finalizzato al miglioramento della qualità della vita dei dipendenti e della loro produttività. Questo servizio può essere dato da un organo interno o da uno esterno all’azienda e in entrambi i casi dovrebbe mirare alla promozione della crescita delle persone, non a fare gli interessi dell’azienda.
Questi sono gli ambiti d’interesse maggiore per il counseling odierno. C’è da osservare che negli ultimi anni, sempre più persone stanno comprendendo quanto importanti siano gli strumenti o se vogliamo, le qualità, che il counseling cerca di far sviluppare. Se non che’, quelle che vengono chiamate counseling skills, ovvero le abilità del counselor, stanno diventando risorse preziose per qualsiasi persona, dunque applicabili in qualsiasi ambito. Gli aspetti umani che più possono trarne beneficio sono, infatti, il rapporto con se stessi, le relazioni con gli altri, la comunicazione, l’autostima, la gestione dello stress, la risoluzione dei problemi e via dicendo, ecco perché cresce il numero di persone che sceglie di usufruire dei colloqui di counseling privatamente, come strumento di crescita personale.
Approcci del counseling
Oltre ad un vasto raggio di utenze, il counseling presenta anche una variegatissima scelta di diverse forme e criteri. Troviamo dunque un ampio numero di approcci, che generalmente si possono ricondurre alle principali correnti di pensiero della psicoterapia. Quelli principali sono: l’approccio centrato sulla persona, chiamato anche approccio umanistico, l’approccio psicodinamico, l’approccio cognitivo e quello comportamentale, l’approccio gestaltico e quello esistenziale, all’interno dei quali possiamo trovare altre ulteriori specializzazioni.
Bisogna osservare che negli ultimi anni, da parte dei counselors, vi è una tendenza sempre maggiore ad integrare vari orientamenti diversi nella propria formazione. Si sta infatti diffondendo quello che viene chiamato l’approccio di counseling integrato. Gli approcci integrati possono essere molto utili ed efficaci, perché riescono appunto ad integrare metodi e teorie diverse, offrendo così una gamma di strumenti più ricca e variegata ai clienti.
Il counseling centrato sulla persona rimane tuttavia l’approccio centrale a tutta la sfera del counseling, perché i suoi concetti e le tecniche che per primo esso sviluppò, restano fondamentali all’interno di qualsiasi altro intervento di aiuto.
Counseling versus psicoterapia
E’ importante, prima di concludere questa riflessione sugli aspetti del counseling, chiarire bene le differenze tra il counseling e la psicoterapia, per evitare di lasciare all’oscuro possibili dubbi o necessari chiarimenti. Molte persone, infatti, credono che queste due pratiche possano essere intercambiabili o che una derivi dall’altra, ma non è così: esse nascono come interventi distinti ed hanno scopi altrettanto ben distinti.
La psicoterapia si occupa di disagi e sofferenza psichica, insomma di patologie, perciò si occupa di curare persone che soffrono di una malattia legata alla psiche. Il lavoro che essa va a fare è un lavoro molto profondo che scava nella struttura della personalità, mirando a ripararne o a ricostruirne le parti danneggiate. E’ un lavoro che richiede una certa quantità di tempo, sicuramente più di quello che può impiegare un percorso di counseling.